lunedì 2 luglio 2018

"Vite di sguincio" di Remo Rapino letto da Marcello Marciani







VITE DI SGUINCIO
di Remo Rapino
Ed.Carabba, Lanciano 2017







    In questo libro convergono molti temi e stilemi che hanno caratterizzato il mondo poetico dell'autore in un buon quarto di secolo di intensa attività letteraria. In esso troviamo infatti l'interrogarsi sul senso dell'esistenza e della Storia; la ricerca di un possibile, o anche impossibile, Altrove; il rischio della sfida; il valore fondamentale dato alla Parola e, con essa,  alla narrazione, che tramuta l’analisi di nuclei individuali in storie di gesta, in miti e saghe; la coesistenza del registro epico e di quello lirico; l'andamento fluente, orale, di molti racconti, e il timbro stringato e asciutto di altri: insomma questo lavoro è una sorta di ventaglio aperto sui vari aspetti, tematici e formali, dell'intera opera di Remo Rapino.
  Ed è un ventaglio ricco di colori a contrasto, frusciante di suoni ed echi diversissimi fra loro, impregnato di vari umori e profumi, perché in ogni sua stecca e striscia c'è una porzione di mondo, visitato sotto l’aspetto geografico, indagato nelle epoche e nelle ragioni  storiche, espresso nelle lingue e nelle parlate d’appartenenza. Si passa così dall’Abruzzo scabro e deserto di Rocca Calascio a quello collinare, prossimo al mare, di una probabile, appena allusa, Lanciano; dalla Sicilia delle zolfatare di inizio novecento alla Sardegna ottocentesca dei primi moti d’autonomia; dalla tragica Fuente Grande di Garcia Lorca alla Rio de Janeiro delle miserie e delle rivalse degli anni sessanta; dalla Stalingrado stretta sotto l’assedio bellico del '43 alla Sarajevo fratricida degli anni novanta, fino al Cile degli anni settanta, fra l’Unità Popolare di Allende e il Colpo di Stato di Pinochet. E, fra le le pieghe dei vari racconti, si inseriscono rimandi alle tante migrazioni dal nostro paese alle Americhe, memorie sulle due guerre mondiali, insieme a citazioni di poesie e canzoni popolari che rendono il fascino e la malìa  d’antàn  delle varie ere. In questa volontà di addentrarsi fra paesi e periodi storici così diversi fra loro c’è non solo la curiosità antropologica dell’autore, che registra con estrema precisione documentale e lessicale vicende e parlate, ma la necessità di portare avanti un’indagine conoscitiva alta, a tutto campo, onnicompensiva, sul ruolo della Letteratura oggi.
     In anni recenti siamo stati invasi da opere narrative minimaliste, centrate su storie private, o meglio privatiste, dove l’intimismo più egocentrico viene espresso in una prosa asettica, articolata in frasi e periodi brevi, con terminologia ridotta e scarsa aggettivazione, modulata sui manuali standard delle scuole di scrittura, spesso operanti anche online. È sorta in tal modo un'intera classe di giovani autori uniformati su tali modelli, che sembrano nati dal nulla, difficilmente distinguibili fra loro eppure supportati anche dall’editoria di richiamo, che vede in questa semplificazione del linguaggio un notevole riscontro di vendite. In tale ambito l’opera di Rapino, così invece "massimalista" per contenuti e forme, potrebbe apparire restauratrice, perché portatrice di valori antichi eppure inossidabili per chi tiene ancora al ruolo conoscitivo, oserei dire salvifico, della Letteratura. E il valore fondamentale è proprio nel senso che l’autore dà alla parola, e nell’uso che ne fa. Ancor prima di essere il narratore fluente ed eclettico che oggi leggiamo, Remo è un poeta. Egli esordisce nel 1993, con la raccolta di versi Dissintonie, a cui ne seguono altre per un buon decennio fino alla pubblicazione nel 2006 del romanzo Un cortile di parole, vincitore del Premio Penne-Mosca. E da poeta, il nostro autore ha sempre saputo che è la parola che fa l’opera, non i sentimenti provati né i fatti narrati. La parola che interpreta a modo suo la vita intera, come nell’esergo di Garcìa Marquez posto in apertura al primo racconto di questo volume: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. E l'esergo di Garcia Marquez è una sorta di vessillo ideale sotto cui procede l'intera narrazione. In una pagina molto indicativa al riguardo, si afferma che "non esistono fatti, esistono soltanto le storie, modi infiniti per raccontarle e così cambiarle ancora, per tentare di cambiare la Storia: questa, forse, la sola condivisibile verità". E Cafiero della Torre, uno dei personaggi della sezione dei sognatori, precisa in un altro passo che la vita va raccontata "senza confini fra il falso ed il vero, i voli e le cadute, tutta la vita vissuta, miraggi compresi, nella mente e nel fragile cuore". In questa concezione risiede l'essenza dell'epos, che in greco sta per "parola" e, in senso più ampio, "racconto", riferito e tramandato oralmente, arricchito e trasfigurato dalla fantasia del narrante stesso. Per cui sia il substrato storico che la dimensione politica dei testi, così come  la perizia nella resa geografico-ambientale e nella trascrizione delle varie parlate, pur notevoli di per sé, non avrebbero un valore letterario autonomo se non fossero inglobate in quella sapiente orchestrazione narrativa, e poetica insieme, che fa della parola, lavorata e articolata nelle sue molteplici valenze sonore, emotive e gnoseologiche, l’asse portante dell’intera opera. Può sembrare ovvio ribadire l'importanza della parola, mezzo indispensabile senza il quale non esisterebbe scrittura alcuna, ma in Rapino non c'è solo la piena consapevolezza del mezzo, ma il suo delinearsi come tema fondamentale, metaletterario, ricorrente in tutti i brani del libro, a volte addirittura visto come un fine. È ciò che accade in uno dei testi più affascinanti dell'opera, La terra è blu come un'arancia, che è il primo nucleo germinativo del romanzo Un cortile di parole. In esso il personaggio di Aureliano, nome scelto per omaggiare il Garcia Marquez di Cent'anni di solitudine, da umile manovale a giornata diventa il proprietario-depositario di una biblioteca di 30.000 volumi, raccolti in ogni dove con infinita pazienza e amore per la lettura, perché egli è convinto che "le storie dei libri erano l'unica possibilità di ri-creare il mondo da capo, meglio di una rivoluzione", e ancora, citando un altro frammento: "la parola era il gesto più libero che l'uomo avesse a disposizione per non subire soltanto, per vivere e far vivere ogni possibile alternativa, un'avventura della mente e del cuore". La parola quindi come conoscenza e rivalsa da un mondo ingiusto e meschino, come estrema libertà e affermazione di sé. Molti personaggi infatti hanno la necessità di narrarsi, finanche di parlarsi addosso, “come un vecchio cane da guardia che parla e sparla alla luna”, in un movimento a spirale che, partendo dal pensiero, investe l'intero corpo del narrante e, con esso, la terra d'appartenenza, con le radici dei ricordi e la nebbia dei sogni. Questo autoraccontarsi tuttavia non è uno sfogo solipsistico ma un modo per cercare un senso alla propria esistenza, in rapporto sempre agli incontri fatti, ai lavori intrapresi, alle amicizie, alle speranze e alle illusioni collettive, agli amori vissuti o sognati. Si inseriscono in tal modo, nel film della memoria, frequenti flashbaks attinenti alle vicende della famiglia, o del paese, o della Storia generale in cui la piccola storia dell'individuo viene situata: il racconto così si dilata, attraversato da svariate inserzioni di altri episodi e avvenimenti, diventando un racconto di racconti, acquistando lo spessore e l'ampiezza di un'epopea. Il narratore diventa pertanto un affabulatore, che accavalla in bocca fonemi, termini e frasi per mantenere vivo il ricordo e ritardare il momento della morte, come fa il vecchio nonno attorno al quale, al calore del camino, i nipoti ascoltano incantati intrecci di trame confinanti col mito. E quando tutto il percorso del personaggio principale, narrante o narrato (a seconda se viene usata la prima o la terza persona), viene scandagliato nei minimi dettagli, dalla nascita alla fine, la scrittura si conferma copiosamente orale: ingloba nel discorso frammenti di proverbi, di canzoni, di credenze tramandate, indugia in iterazioni e varianti, per restituire il corso della vita che procede come un largo fiume, pur diramandosi in innumerevoli rivoli. È questa una tecnica che ha origini antiche, dal versificare degli aedi, dall'oratoria dei contastorie, e che si rinnova in epoca moderna in molta narrativa latinoamericana, di cui Remo è caloroso cultore. Essa permette all’autore di addentrarsi nella carne viva dei suoi personaggi, di indagare sulle loro ragioni e pulsioni, di interrogarsi sul senso dei loro percorsi, di restituirne lo sfinimento della solitudine, la felicità dell'amore, l'agonia estenuante del trapasso. Le Vite di sguincio, ordinate nelle tre categorie differite dei balenghi, dei sognatori, e dei quasi eroi, sono in realtà accomunate da un uguale tipo di approccio nei confronti del vivere, che è quello dell'essere autentici, di affermare la propria natura senza infingimenti, di sfidare le convenzioni e la sorte, di tentare l'avventura dell'impossibile, di inseguire i propri sogni senza cedere agli opportunismi e ai tatticismi sociali. Così Mengo, definito balengo perché è un vecchio testardo, incollato in totale solitudine, per ben dodici anni, alla sua Roccacalascio, di cui resta l’unico abitante, è anche un sognatore e un quasi eroe, che rivendica il diritto di restare nella sua terra, di difenderla contro tutti gli ex paesani che sono fuggiti verso massificate città. E Liborio, il muratore rimasto afono e intronato a causa della morte di Togliatti, si strugge per la sua balbuzie e sogna di recuperare la parola, perché sa che è il mezzo elementare per affermare la propria autonomia comunicativa. Così Kurt ed Ante, protagonisti delle vicende più crude e atroci dell'opera, attinenti a due momenti tragici della storia europea, la battaglia di Stalingrado e l’assedio di Sarajevo, non sono soltanto dei quasi eroi, ma dei totali balenghi e sognatori, che sfidano la morte e si immolano per una sonata al pianoforte e una tanica piena d’acqua. Le pagine che raccontano il loro sacrificio sono le uniche in cui viene abbandonato il timbro discorsivo e fluviale, perché qui non c’è una vita intera da narrare ma i pochi minuti che precedono e accompagnano l’esecuzione delle vittime, e la prosa diventa asciuttissima, densa, affilata e ricca di sottotesti come la più tagliente e dolente delle poesie, a dimostrazione della sorprendente capacità di Rapino nel saper adottare stili di scrittura diversi a seconda  della differenti  storie trattate.
    Ciò che accomuna queste figure è in definitiva la loro spiazzante spiritualità, la loro commovente, a volte folle, umanità. Quella che fa dire ad Aureliano che “non amare gli uomini, tutti gli uomini, era come essere morti”, quella che serpeggia e si intrufola nella difformità dei luoghi e delle epoche, nella mappa cosmopolita compattata dalla fantasia e dall’abilità dell’autore, e che gli fa concludere che, a dispetto delle contraddizioni e delle crudeltà della Storia, la vita va vissuta, ascoltata “quasi ogni vita fosse la nostra”, ri-pensandola “come luogo di un universale destino, dolce ed amaro insieme, perciò umano, perciò libero”.



                                                                                                  Marcello Marciani

                                                                                      Lanciano, 3 maggio 2018
  



                                    
  presentazione ex Casa di Conversazione di Lanciano, giovedì 3 maggio 2018













martedì 26 giugno 2018

Il racconto "Via Orientale" di Pina Allegrini letto da Marcello Marciani






Pina Allegrini
VIA ORIENTALE
Edizioni Tabula Fati, Chieti





Dopo i Racconti dell’isola, edito nel 2014 sempre da Tabula Fati, Pina Allegrini prosegue nel suo viaggio narrativo all’interno dell’infanzia, età fondamentale per accostarsi con stupore e grazia alla visione proteiforme della vita. E parlo di “visione proteiforme” non a caso, perché nel libro tutto è visto dagli occhi di una bimba di cinque anni, che osserva e scopre il mondo sottostante dalla finestra posta ad oriente della casa famigliare, e più precisamente dalla finestra di una stanzetta all'ultimo piano, divenuto ripostiglio di provviste cianfrusaglie ricordi e magie, in cui poter appartarsi e fantasticare. La stanza è chiamata “Sia lodato Gesù Cristo”, grazie ad una scritta antica, ancora visibile su di una striscia di carta incollata sopra la porticina di vecchio legno. Dalla suddetta finestra dunque, che l’autrice definisce “trappola incantatoria aperta sul cielo”, sita in un avamposto solitario, staccato dalle stanze inferiori eppure con esse comunicante tramite la scala interna delle necessità e degli affetti, la bimba scruta l’orizzonte dei campi e del mare, fiuta l’aria che cambia, registra il passaggio delle stagioni, si esalta alle feste rituali del San Giovanni, di Ferragosto, Natale Capodanno e Pasqua, ascolta il cicaleccio delle comari, si stupisce alla installazione di un Circo Equestre, studia insomma tutto il visibile e l’udibile prima di scendere dabbasso e partecipare ai tanti avvenimenti della famiglia e del quartiere.
L'approccio narrativo è quindi simile a quello del precedente libro di Pina, appunto Racconti dell'isola, ma la modalità è diversa, perché mentre nei Racconti l'occhio della scrittrice quasi si soprapponeva a quello del bimbo Felicino, in un processo di identificazione infantile anche a livello linguistico, qui è la memoria adulta che fa rivivere un anno intero di vita della bimba protagonista, con tutta la consapevolezza e l'abilità lessicale e strutturale che ne consegue. E a livello di struttura quest’opera, pur se si svolge in trentuno capitoli e un epilogo, si rivela come un ininterrotto racconto circolare, dove l'ultimo termine del capitolo precedente viene rilanciato all'inizio di quello seguente, e dove il primo e l'ultimo capitolo ripetono la stessa frase d'attacco, in quanto l'arco dell'anno è compiuto e si torna alla stagione di partenza. In tale geometria compositiva i trentuno capitoli costituiscono i vari tempi o movimenti di un'unica partitura, perché la scelta delle parole e delle loro connessioni è soprattutto di tipo sonoro, musicale, com'è giusto che sia in un'autrice che ha dedicato una vita alla pratica e allo studio della Poesia. Infatti la prosa di Pina è fortemente espressiva, combinatoria, lirica, attenta alle più sottili sfumature dei vocaboli e dei verbi, al gioco delle onomatopee, ai rimandi allitterativi, ma non si perde mai in astrazioni, anzi è precisa nel rendere con estrema nitidezza anche i minimi dettagli degli ambienti, siano essi interni casalinghi o paesaggi, nel registrare i colori i rumori e le usanze di un'epoca quasi con lo scrupolo di un antropologo. Eppure la narrazione viene di continuo attraversata da un brivido metafisico, avvolta in un'aura di rarefazione che conferisce al dato reale un riflesso mitologico. Per cui credo sia appropriato apparentare questa scrittura al “realismo magico”, inteso non come filone storico teorizzato nel 1925 da Franz Roth ma come un elemento di stile ricorrente che attraversa le arti in più epoche, dalla pittura alla letteratura al cinema, non solo nel Novecento. Secondo la studiosa Marina Vagnini:
“ L'intento principale di questa corrente artistico-letteraria è appunto la descrizione meticolosa, precisa della realtà, che non tralascia alcun dettaglio, ma consegue un effetto di straniamento attraverso l'uso di elementi magici (a volte anche uno solo) che sono descritti altrettanto realisticamente. (...) Alcuni critici non considerano il Realismo Magico come una corrente vera e propria, quanto come una sottocategoria del Postmodernismo; altri lo considerano come un prolungamento in campo letterario del Surrealismo ed altri ancora come accomunabile ai romanzi fantasy. Ma c’è da dire innanzitutto che, a differenza dei surrealisti, i realisti magici non cercano di esprimere ciò che è oltre, superiore al reale, ma descrivono il mondo reale stesso come dotato di meravigliosi aspetti inerenti ad esso.”*
Ed è ciò che accade nella scrittura di Pina, nell'educazione sentimentale e affettiva della bimba che era, visitata da presenze reali, a volte estremamente modeste ed umili, che diventano emblemi, icone di una dimensione altra, di una proiezione sorprendente dell'anima. Fra queste c'è “l'omino della pioggia”, che ripara ombrelli di casa in casa arrivando su “una bicicletta squadrellata” su cui si esibisce “una danza di cetonie” che si snoda “da una serie di fili legati al manubrio”, somigliando così “ad una strana tartaruga semovente, ad un mostro mitologico”. E c'è “il poverello di Palena” che sfida il gelo e la neve e bussa alla porta della nonna per rifocillarsi e sparire poi nel bianco ovattato di un onirico inverno; c'è il ragazzo di nome Perduto, sonnambulo stranito che si aggira per i campi e dona alla bimba lo “spolverio verderame” di una lucciola, che lui chiama “la polvere delle stelle”; ci sono le figure rassicuranti dei nonni, non solo depositari di un’antica saggezza ma divulgatori di credenze popolari, favole di continuo variate, pronostici vaticini e rituali magici che diventano viatici per affrontare il futuro. A tal proposito una delle pagine più intense e commoventi del libro è quella in cui il nonno, per consolare la nipote di un torto subìto nella sera di San Silvestro, le deterge le lacrime col suo fazzoletto per poi fargliele seppellire nella terra, che le succhierà e le trasformerà in linfa benefica per le sue radici. In tal modo la terra muterà il volto al dispiacere e l’anno nuovo che si approssima, liberato dalle lacrime dell’anno passato, arriverà fresco e augurante.
In questa pagina, come in altri passi del racconto in cui il tema educativo è più presente, più evidente la valenza etica del progressivo crescere e accostarsi alle difficoltà dell’esistenza, si svela la dolcezza e insieme tutto lo struggimento dell’autrice per un mondo di valori irrimediabilmente perduto. E questa volontà di rinarrare la storia per cercare nel passato ciò che manca nel presente è un altro elemento che accomuna la scrittura di Pina a quella di illustri realisti magici di area latinoamericana come Garcia Marquez o Isabel Allende. Come avviene in loro, nel microcosmo di Pina bambina la demarcazione fra vivi e morti non è poi così nitida, il tempo segue un itinerario circolare, l’eredità affettiva dei nonni continuerà e si fisserà per sempre nella scrittura, poiché , insieme ad essa, è solo la rielaborazione fantastica che permetterà di comprendere e assimilare il passato e porsi con spirito critico di fronte al presente. Questa operazione di recupero e reinvenzione del ricordo non è soltanto mentale bensì anche sensoriale, corporea. Per ammissione stessa dell’autrice “le cose non avevano un nome ma un odore, un sapore, un calore, un tepore”, addirittura vengono catalogate e inventariate, nelle prime pagine, secondo le forme, gli odori, i suoni, in una sorta di voluttà sensuosa che fa percepire a tutto tondo l’esperienza vitale. Ci sono passi in cui il cromatismo di certi particolari è talmente fulgido che sembra di ammirare le distese campiture di un Casorati o di un Donghi, artisti di punta del Realismo Magico novecentesco, in altri l’avvicendarsi dei rumori e delle voci - gli schiamazzi dei ragazzi che si rincorrono lungo la Frana, il canto barbarico delle processioni, lo scricchiolio di piatti e bicchieri infranti, il frinire assillante delle cicale, il chiacchiericcio pettegolo della comari – si addensa in uno sfaccettato concerto della memoria in cui anche l’uso del dialetto è funzionale alla dettagliata, quasi etnografica ricostruzione di una comunità e di un territorio, senza mai cedere al bozzetto paesano, al compiacimento folkloristico. Perché un dato è certo: attraverso l’autoritratto da cucciola e il dipanarsi di un anno della sua educazione sentimentale, Pina parte dal microcosmo del suo paese, quel Castelnuovo o Castannove nominato di sfuggita due volte soltanto ma del tutto riconoscibile dagli scorci urbani e paesaggistici, per farne un riflesso del mondo intero. Perché le storie sono come le parole: bisogna sapere sempre da dove provengono. E i posti e i paesi, anche i più reconditi e meno frequentati, dai quali tanti scrittori sono partiti per scoprire le radici della loro vocazione, ripensandole in un incessante lavorìo conoscitivo e creativo, diventano – attraverso l’orchestrazione e la fascinazione delle parole stesse - luoghi universali del Mito e dell’Anima.


Marcello Marciani


(questo testo è stato ascoltato domenica 24 maggio 2018 durante la presentazione del libro presso il Teatro Comunale Di Loreto- Liberati di Castelfrentano)


*Marina Vagnini, Il Realismo Magico tra Salman Rushdie, Isabel Allende e Gabriel Garcia Marquez.







sabato 16 giugno 2018

Connubio d'Arte: Ivano Pardi & Grazia Di Lisio - "Frammenti"




                                                                 a Ivano Pardi


Sentire l’abbraccio svanire
degli eventi nel tempo che frastorna
di silenzi sui colli
irti dell’indifferenza.
Udire il canto che intrepido
risponde – rapsodo
di terralbe boreali –
all’eco di perché irrisolti,
a frammenti che la terra muta
schiude e fiammelle ardenti
cova nel sacrario della mente.
Un’unghia memoriale – un brivido –
chissà, lampo di eternità!
                                  

Grazia Di Lisio

Da “Compresenze”, Tracce 2009

                                                                                  





Dialogo in frammenti


Con “Frammenti” si disvela la favola pittorica di un artista solitario, dal grande cuore, che sogna cavallini a dondolo dell’età perduta e gioca con i recuperi memoriali del borgo natio. È il canto nuovo di Ivano Pardi, un figurativo di mutevolezza espressiva, di sacralità per Castelli, per la gloria del ‘500, le scalette blu, le turchine e le quadrelle. Un canto che si culla di recuperi di un borgo dove i Pompei e i Pardi hanno fatto la storia. “Un paese è non essere soli” – pur tra puntelli delle viuzze silenti – sembra suggerire l’artista nel corposo cromatismo dialogico. Quel borgo dai lembi slabbrati, quel ventaglio di casette addossate, Pardi incornicia con dignità e fierezza, lasciando trapelare nella terrosità dei colori, un filo d’emozione per la violenza di un sisma che ha trasformato cose, pensieri. Sui Frammenti di tele e tavole affiorano grumi materici, graffi di colore, lembi di case sghembe da una tavolozza che germoglia sorrisi e riluce di ingubbiate e graffite, di vecchi ritratti e decori di Orsini-Colonna. Pennellate fluttuanti di archetipi in flash back su incisioni e graffiti di giraffe e figurine rupestri, incisioni di piccoli soli (Ultimo fuoco) soffocati nella corteccia materica che esplode di piccole bolle-cratere (omaggio all’arte di Burri): dilemmatico gioco di luci e ombre, di frammenti umani dilacerati con cui Pardi ricompone la complessità dell’io. E sorride all’arte dei padri nel canto di superfici materiche, nei guizzi graffiati d’argento, nel verde dei sogni. Materia che si fa colore, frammento di vita, il muthos legei delle favole antiche. Una favola che insegna a cullare il tempo, a unire la magia del passato al presente, a rivivere il mito di prorompente vitalismo. Un approccio polisemico con cui l’artista recupera se stesso all’ombra del suo nido argilloso, l’antica fornace Pompei, con fotogrammi di luce, plasmabilità scultorea e densità ceramica; sintesi composita che razionalizza spazi ma tocca le fibre dell’anima. Sussulta anche il grembo di madre, la regina Madre di Castelli, con cui Pardi conclude il ciclo pittorico. La statua lignea di S. Anna, sfolgorante nella sua nicchia di luce, infonde armonia tra le arcate, tra le ruette abbuiate. E un bagliore materico diventa fiore di cristallo, come nelle fiabe d’oltralpe, grazie all’agile manualità che plasma e commuove. Sacro omaggio dalle pulsioni di figlio alla “Reina” madre di un borgo.

                                                                                                                                                              Grazia Di Lisio








giovedì 31 maggio 2018

Cristina Campo: "Amore, oggi il tuo nome"









Amore, oggi il tuo nome
al mio labbro è sfuggito
come al piede l'ultimo gradino...

Ora è sparsa l'acqua della vita
e tutta la lunga scala
è da ricominciare.

T'ho barattato, amore, con parole.

Buio miele che odori
dentro i diafani vasi
sotto mille e seicento anni di lava - 

ti riconoscerò dall'immortale
silenzio.









da: "La tigre assenza"
Adelphi










lunedì 28 maggio 2018

Vittorio Sereni - Saba -





Berretto pipa bastone, gli spenti
oggetti del ricordo.
Ma io li vidi animati indosso a uno
ramingo in un'Italia di macerie e di polvere.
Sempre di sé parlava ma come lui nessuno
ho conosciuto che di sé parlando
e ad altri vita chiedendo nel parlare
altrettanta e tanta più ne desse
a chi stava ad ascoltarlo.
E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile,
lo vidi errare da una piazza all'altra
dall'uno all'altro caffè di Milano
inseguito dalla radio.
Porca - vociferando - porca. Lo guardava
stupefatta la gente.
Lo diceva all'Italia. Di schianto, come a una donna
che ignara o no a morte ci ha ferito.





da: "Gli strumenti umani"
Einaudi, 1965

venerdì 11 maggio 2018

Connubio d'Arte : Ivano Pardi & Grazia Di Lisio - "Anime acquee"

Ivano Pardi




Anime acquee




Fotoni stralunati di profughi
marini – di larve che s’avanzano
agli orli di un sipario,
pallidi i sembianti …
(un soliloquio di chiarore
da sferici fondali).
È il canto d’un approdo
o scialbo liquefarsi di voci
memoriali, d’anime acquee?
Come vanno vinte e … avvinte
nel bubbolio silente
tra il ferino e l’umano!
Da forze oscure brividi di vita
(come sogno di Jung)
e flebili farfalle 
e steli di vaga azzurrità.



                                      
Grazia Di Lisio
Da "Compresenze", Tracce 2009

                                                          



Anime acquee



Il monte Camicia, che riveste a strapiombo il verde profilo dei colli di Castelli, sulla scarpata dove fluisce il gorgoglio del fiume, può diventare malinconico specchio del Dna del dolore. Un paese, un gorgo silente. Ma il verde può evocare l’azzurro interiore come un giglio d’acqua che fluttua nel grumo della mente e rimuove emozioni, affetti lontani. I pigmenti sfilati del paesaggio di Pardi si slargano di rinnovate emozioni, di colori svaporati in memorie involontarie, magmatiche onde stese a plat con la forza e la morbida plasticità di un vigoroso pennello. Eco di chiaroscuri interiori di ombre distese sull’ombra dell’inconscio; ma è il pastello il tenue bagliore che illumina e modella pulviscoli cromatici di essenze luminescenti: scandaglio dell’altro da sé, un appiglio in cui nascondere ombre del passato, in cui disvelare l’attesa di figlio dietro un muro di alghe mobili, sia pur avvinghiate a cordami di dolore. Pardi stempera la sua visione affettiva in ‘acquarelli dell’anima’, in un impressionismo dialettico che sprofonda con l’accentuarsi del celeste-azzurro, nel magma dell’io: le ombre che appaiono e scompaiono dai fondali sono anime d’acqua, fantasmi danteschi in delirio di coscienza, con volti deformati e imprigionati in rivoli d’acqua. Eppure, come fotoni di luce, rimbalzano dallo sfondo, guizzando in trasparenza. Sono le onde del pensiero a catturare i ‘bissi’ di mare che ci legano al destino, a creare immagini e visioni di profughi in cerca di approdo nell’isola che non c’è, dilatando il respiro accarezzato oltre l’altrove. I contrasti esistenziali sono resi con tutta la gamma d’azzurro fino al blu profondo del mare. Le identità stravolte diventano ombre sfumate, fili tesi, vibrazioni di magma. Tsunami cromatico che ingorga terra e mare.
                                                                                                                                                   

Grazia Di Lisio 








 

giovedì 10 maggio 2018

Letture: "Louis" di Luigi D'alessio





Louis
Luigi D’Alessio
RPlibri, 2017




L’opera, si apre con un prologo, un moderno proemio che polarizza, sin dall’immediato, l’interesse del lettore sul rapporto dialogico tra un io narrante anonimo e un io narrato che ha nome Louis, il soggetto agente, di cui si parla al passato, cui è demandato l’onere di esistere in un quando doloroso, in un mondo vedovo, vagando “da un bar a un bar” a innamorarsi “per nullafacenza” di bariste e badanti russe delle quali non s’innamora, leggendo  la poesia di Eliot , di Montale, della Rosselli, ascoltando musica di Mahler, Beethoven, Chopin, Miles Davis, per poi rivelare che lui, della musica, ascolta  “il fruscio”.
Ma la vera protagonista è un’assenza, una lei che non ha nome e molti nomi epici, è Clizia, Fedra, Selene, persino un Odisseo al femminile cui sono indirizzati versi, lettere non scritte da “un Calipso” che dispera il suo ritorno.
L’autore maneggia le parole con la perizia di una merlettaia di lungo corso che, con dita agili e sicure, intreccia centinaia di fuselli, esegue nodi, legature, getti, punta con precisione ogni spillo.
Ne risulta un tessuto narrativo compatto, coerente, inoppugnabile. 
Un dettato in cui, tratti meditativi, tensione lirica, riflessioni sapienziali raggiungono apici altissimi per poi lasciarsi stemperare dallo sguardo ironico, talvolta canzonatorio, dell’io narrante.
Una scrittura alta, dunque, che seduce e convince per le oscillazioni fra memoria e visione sapientemente calibrate, per la salda aderenza al proprio centro d’ispirazione. Questo Louis è "necessario" come afferma, a ragione, Valentino Fossati nella sua accuratissima postfazione, necessario all'autore l'artificio che consenta l'affondo nell'intimo guardandosi da fuori, necessario al lettore che, se Louis non fosse stato scritto, ne sentirebbe la mancanza.


Maria Grazia Di Biagio




*


Louis fumava
sempre una sigaretta
prima del caffè.
Ma quella mattina Louis
mentre con la sigaretta
attendeva di entrare al bar
mi disse di averla vista
col giornale a un tavolino.


Louis parlava chiaro:
sostenne di averla vista
ma non c’era.




*


Louis per agevolarsi
sul lavoro
– restaurava l’inconscio,
mi disse stava leggendo
solo quelle poesie in cui
il primo verso era
espresso dall’ultimo.

Louis mi sorprese molto.
Louis mi fece riflettere
sul perché nella realtà
la fine non corrisponde
mai all’incipit.




*


Louis era molto dubbioso
sul Sempre. Preferiva l’Oltre.

Si salutarono
per l’ultima volta.
Louis mi disse
che ci fu un’altra ultima volta.

Louis aggiunge che
ci fu un’ulteriore ultima volta
della penultima volta.

Allora Louis si chiese
che senso avesse l’eternità.




*


Louis si innamorò
di una badante russa.
Ma non mi innamorai, disse Louis.
L’ho vista sulla panchina
leggere Gor’kij e ho pensato
che il futuro può essere una occorrenza
un bisogno – disse Louis
del presente.




*


A proposito di nomi
Louis era convinto
che Alfredo, Vincenzo, Gennaro
avessero il nome degli Alfredi
Vincenzi, Gennari.

Louis me lo disse perplesso:
una sua amante di nome Aurora
fini con è subito sera.
Poi Louis si convinse
che tutto è coerenza:
un verso come il nome
giustifica la poesia.




*

  
Louis mi disse ma non disse niente.
Louis si spostò in avanti
io rimasi alla ringhiera come se lui
si stesse guardando di spalle. Poi Louis
mi offrì una sigaretta.
Per favore non muoverti da qui
bada tu al mare – mi disse Louis
io mi devo occupare del silenzio
di chi conosce il canto delle sirene.

Positano, Il San Pietro
4 ottobre 2017.

(Credo si pensi per baluginii di azioni.
Me ne accorgo dopo che ho scritto
senza scriverti. La scrittura a me mia,
intimamente diretta a te, alla lettura
mi fa spettatore di un inatteso replay
senza ricordare il dettato cui mi aveva sottoposto
una sconosciuta volontà

di tue gambe le tue
con la conseguenza dei seni quel neo
isola mattutina nell’arcipelago della schiena.

Credo di pensarti impiegando un tempo intervallo.
Che anziché situarsi tra due tempi, come
tra un primo e secondo atto
in cui l’intervallo è il presente di sé, qui invece
la pausa coagula tutto in un pretesto di eventi mancanti:

una febbrilità nella voce, due polpastrelli
alla circonferenza oblubinata di un orecchio
il dorso della mano sul pelo dell’acqua e
grana la pelle all’ingresso dei glutei.

Un tempo insomma simile all’attimo
tra lo squillo e il pronto. Dove la sospensione
predomina e d’improvviso persiste alla voce,
di un qualsiasi Mi manchi
dal telefono giungesse o giungerebbe
...)




*

Louis quando si innamorava
era un disastro.
Non che lo dica io, veniva
affermato da Louis stesso
con vari esempi di scritture
del tipo – mi fece leggere Louis

Io. Tu. Noi.
Noi. Tu. Io.
Dove tu dove io
non so.




*

Louis alla fine Louis
fotografava mosche
Louis non che fotografasse mosche
ma, come dire, Louis
fotografava mosche, Vedi?
mi disse Louis
mostrando la foto di una pagina
volevo adagiarmi sul suo corpo,
i capelli le labbra
ricordare dalle dita ai piedi,
e una mosca 
si è posata sul suo corpo.