martedì 20 febbraio 2018

"Verdemare" di Alba Gnazi letto da Giorgio Galli: Cara Alba, ...





"Verdemare"
cronologia inversa di un andare

Edizioni La Vita Felice, 2018









Cara Alba, è una poesia affascinante quella di Verdemare, che arriva d'imperio con la sua eleganza e le sue infrazioni all'eleganza. Una poesia espressiva, dominata da un "colore" che davvero richiama il verde acquamarina, colore di gioia pensosa, di cose e affetti concreti ma cristallizzati, diamantizzati non fissandoli in un istante supremo, ma eternandoli con tutto il movimento che contengono, come pezzi di mondo staccati dal nostro mondo e racchiusi in un diadema. Si sentono gli odori, i fruscii, le consistenze dei corpi. E' tutto vivo, ma tutto pensoso. Come in Promenade, una scena elementare cui le combinazioni di parole danno un non so cosa di miracolistico:

«All’asfalto non pertiene quanto fiato si
scrolli dalle interlinee granulari
che si slabbrano a ogni frenata,
la possanza del traliccio
stemperato da schiene e stormi in crescita,
le bocche impastate dal cono gusto bacio,
il silenzio strusciato di pelle in pelle come un virus,
noi in qualità di traversanti di fianco ai moli
e ai torpori che ci traslucono,
le mani fisse in saccocce strette,
il passo un po’ affrettato, tu avanti,
io leggermente indietro.»

Come nella scrittura che si arrampica, sensuale, in Bianche frequenze:

«Sonorità
infoscano di brezze e cirri
le luci sottocosta, simulacri di
Nereidi dalle bianche frequenze,

afrori
d’incorrotti empirei,
vissuti e atomici
come l’urgenza del sale
tra il pane e la lingua
o l’urgenza della tua schiena
come uno scalmo
per le mie membra.»

Come nel mix linguistico di Biancazita, che crea col suo suono una sorta di realismo magico:

«Vite rubra, fulva
di operosi compromessi;
Musa in carne e fole che
a Biancazita brinda, e a rimorsi
svecchiati dal libeccio,
tali ai passi del fattore lato via,
che urge al tempo e al mestiere
con le falde sospese sugli occhi
per meglio vedere.»

Tu operi con dei melismi. Le tue parole -quelle arcaizzanti, quelle colte, quelle comuni, quelle inventate- sono delle melodie secondarie che introduci dentro la melodia delle cose. Non cerchi di trasfigurare la realtà, di trascenderla, o di fare una poesia con parole forti come le cose. Tu la realtà la sovrascrivi, le scrivi dentro coi tuoi melismi, vi cerchi e vi trovi dei varchi. Come nelle ultime due strofe di A Worms ho conosciuto Dio:

«A Worms ho conosciuto Dio, aveva
mongolfiere in fil di colpa e un violoncello.
Mi ha servito una scusa e da bere,
brodo caldo, un senza timore.
A Worms Dio non ha avuto paura di me.

Condita di metafore la realtà paventa
fortunali di passeri su una grondaia, voci e becchi
dirottati dalla fuliggine. Ma dura poco, ne sa qualcosa
il picchio nascosto tra le fronde, la gru spolpata
da occhi naufraghi, le uova clamorose della ghiandaia
lanciate da una curva sopra un masso: a gocciolare così,
piano, nel secco delle foglie.»



Tu usi la tua padronanza della forma per scrivere un canto d'amore, una lode alla realtà così com'è -come passa attraverso la luminosa penombra del tuo sguardo. La tua musica, le tue proliferazioni verbali e fonetiche, al limite dell'abuso, increspano la realtà, la arricchiscono, la tormentano, ma non ne cercano un'altra. L'oltreparola è già dentro le parole, i varchi sono dentro le cose. L'origine metafisica è tutta dentro la tua origine umana, dentro la storia tua, dei tuoi affetti e dei tuoi luoghi:

«E i punti tornano, basta che nessuno li rivuole
li conto con le dita e
me li segno sullo specchio

A carte non gioco
ma i capelli
ho quelli di mio nonno.»

La seconda parte della raccolta mi ha sorpreso. C'è un cambio di passo rispetto alla prima. Un cambio non definitivo, e purtuttavia avvertibile. I Quattro omaggi che dedichi ad Eliot, Heaney, Montale, Rosselli rivelano una lettura profonda della musica di questi autori: tu sovrapponi il loro clima sonoro al tuo -ma il dettato poetico è tuo, la voce è la tua. Di qui in poi la poesia si fa più tormentata, più scavata, e al tempo stesso trova esiti di una bollente semplicità. Capita anche che i due momenti convivano nello stesso componimento, come avviene in Nemmeno le rose, dove le prime strofe sono quasi un preludio e poi, con un'improvvisa sterzata, con una fratturazione del discorso ch'è tipicamente tua, arriva la poesia, ed è una poesia di ellissi, di salti, di pensieri improvvisi riuniti dallo stile:

«Dicono mi somigli, nipote, ma
tu sei più
adesso, sei più
lieve: più composta. Io
continuo a ramificare.
Ignoro da secoli quale prezzo continui
a rappresentarmi viva.

Un merlo dal platano studia
la breccia scrutinata dalle ruote,
affiora alle terga scoccando il limite,
zampetta e chiurla a vuoto.

Quel suo esistere m’è ostile e disperante
come ogni fine di primavera.

Che poi, ascolta: non t’ho mai detto
che la crema alla rosa che da cent’anni infliggo
al mio viso, spalmata su lustri e ore,
ultimamente ha un sentore di intercapedini
marce, di prolungate soste all’umido.

Credo, in realtà, di non averla mai
sopportata: e forse
nemmeno le rose.»

Trovo esemplari i primi due versi di Mattino d'inverno:

«Col buio del primo sole si rinnovano
i rovesci intessuti dei mondi.»

Nel tuo "controcanto" ogni cosa svela il suo lato segreto, il suo controverso. Si fa strada una luminosa ironia, una tenerezza cristallina, un intimismo più secco. Si fa strada anche un forte, ma non estetizzante vitalismo, prima intrecciato fra le diramazioni del tuo linguaggio e ora esplicito o nel raccontare lo sbocciare appassionato di un amplesso, o in allitterazioni inquietanti ("Ossa mosse ha questa casa") o in pulsazioni ritmiche guerriere.

E poi arriva il poemetto eponimo, Verdemare, la tua bella e sfrontata autobiografia in versi dove il verdemare ci si rivela come emblema e figura del tuo "andare", quell'andare che è la vita stessa, nell'inarrestabile moto trasformatorio che nemmeno la morte arresta. In una nervosa penombra affiora la figura cara e irrecuperabile di tua nonna, cui la raccolta è dedicata, e affiorano le memorie di una tormentata e imperiosa scoperta dell'amore e del sesso, del corpo. E' la poesia di qualcuno che è cresciuto in un gioioso e urticante contatto con la natura, sia la natura esterna che la propria natura, e che verso la fine ci dice due cose: che anche l'assenza ha un suo peso, anche i corpi scomparsi hanno una loro consistenza; e che vivere è un canto di passionale stupore, "ombelicale attitudine a nasciture meraviglie", "consuetudine del fuoco". Questa la mia lettura di una poesia da cui traluce anche un'umanità ricchissima, dalle sfaccettature innumerabili.




Giorgio Galli







1 commento:

Anonimo ha detto...

Infinite grazie, Maria Grazia e Giorgio. Sono profondamente commossa dalla lettura che Giorgio offre di questa raccolta, dalla sensibilità uditiva, poetica, umana con cui l'ha percorsa cogliendone variazioni minime, impercettibili perfino -o forse soprattutto... - a me stessa. Ogni lettura "altra" aiuta a capire, a osservare da diverse angolazioni luci e passaggi che credevamo noti e frequentati.
Grazie a Maria Grazia, alla accoglienza partecipe, alla bellezza che consente di esperire, di vivere da dentro e dentro. Un dono vero per cui mai abbastanza saprò dire la gratitudine.
Alba G.

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