domenica 3 dicembre 2017

Nino Iacovella - Latitudini delle braccia


Letture



Latitudini delle braccia
deComporre Edizioni 2013



Prendere coscienza del dramma della guerra, entrare nella Storia che non si è vissuta ma che è parte integrante della nostra identità vuol dire fare memoria, tenerne il filo perché non accada ancora ed è, anche, conoscere se stessi.
“Latitudini delle braccia” è tutto questo: un documento storico redatto in forma poetica di una bellezza disarmante per la lucidità dello sguardo che non indulge mai in sentimentalismi e la lucentezza di un linguaggio “portante” di immagini vivide al punto da far passare i suoni, gli odori, le sensazioni epidermiche.
L’autore intraprende un percorso storico- antropologico dal profondo delle radici verso il ramo che oggi egli è, frutto non casuale della storia della sua terra e della sua famiglia.
Nella sua accurata prefazione, Alessandra Paganardi  afferma  giustamente che Iacovella sente su di sé il pegno heideggeriano dell’essere gettati nel mondo e aggiungerei che l’intera opera è pervasa dalla consapevolezza di  quel “essere –per- la morte” che è presa di coscienza, tutt’altro che scontata, della propria precarietà e, quindi, scoperta di poter comprendere se stesso e la propria finitezza nell’essere del Tutto, condizione positiva che rende autentiche le scelte dell’uomo e, con esse, la sua vita.
L’opera procede per istantanee, scatti di una Polaroid che focalizza di volta in volta attimi di vissuti individuali  da riconsegnare alla Storia e al contempo definiscono i contorni del volto di colui che sta dietro la macchina fotografica.
In esergo uno scatto sulla strage alla stazione di Bologna fissata nella esattezza del minuto. Un evento che squarcia il tempo, crea un varco fra passato e presente e il ricordo dei racconti paterni sulla guerra torna come memoria di un vissuto atavico, personale, che  è proprio del poeta e lo compone nella sua interezza.

POLAROID
(Scatto di prova)

Hai forse dimenticato le braccia
da qualche parte, in questa città,
dove puoi vedere ancora il fumo
denso dell’esplosione. Vedi, tutto
si compie all’altezza di un cielo,
così, con la tua mano distaccata
da tutto il resto, un corpo ricaduto
a pezzi, il mosaico che pavimenta
i resti della stazione. E’ vero,
siamo qui, in tanti tra le macerie,
assieme alla testa di un cane
c’è come terra di carne sbranata

Nell’attimo prima che si compisse
lo scempio, eri lì ad interrogarti
sulla faccenda della vita, senza
aspettarti nulla, nessun fragore.
Ed eri solo a due passi dall’innesco,
vicino a chi avrebbe deciso le sorti
del vuoto d’aria che ti avrebbe preso
per alleviarti dall’insostenibile
peso delle braccia

Nemmeno la tua solitudine poggia
più sulle proprie gambe. Adesso è lì
mescolata a terra indistinta tra
lamiere storte, viscere e sangue

Sabato 2 agosto 1980 – Ore 10,25
Stazione di Bologna


Il poeta si cala fisicamente nel tempo della seconda guerra mondiale, esplora i luoghi e le ferite del suo (del nostro) Abruzzo e lo fa con una tale naturalezza che non si percepisce lo stacco temporale, tutto è un fluire logico consequenziale, dalla Ortona a Mare de “La Linea Gustav” al non luogo massificante di un Centro Commerciale fino all’atmosfera rarefatta e straniante del Radetzky  Cafè a Milano. La visione assume i connotati della realtà e la realtà  si tinge delle ombre della visione, la dimensione spazio- temporale si annulla, da Guardiagrele a Milano, dal “millenovecentoquarantatre” a oggi, dal padre al figlio è un attimo, necessaria e sufficiente l’estensione delle braccia.

Leggevo di recente su Versante ripido, il prezioso contributo di Pasquale Vitagliano al dibattito proposto da Paolo Polvani sul rapporto poesia-utopia, a cui vi rimando per completezza: http://www.versanteripido.it/civile-p-vitagliano/
 “ Se l’anima è il luogo della poesia, la propria terra è il luogo della poesia civile”, afferma Pasquale Vitagliano.
In tal senso mi sento di asserire che “Latitudini delle braccia” rappresenta un connubio felice fra i luoghi della poesia civile e i luoghi dell’anima.

da LA LINEA GUSTAV  (pag. 32)

Dissero che fu la giornata storta del cecchino,
il freddo a cristallizzare l’occhio che mirava,
eppure la testa di Maria era un’orbita
destinata alla rotta del proiettile,
l’orma di un volto già
disegnata nel fango

(Il dubbio di una traiettoria
nel trovarsi di fronte al corpo:
puntare dentro, fermarsi all’osso
oppure schivare per lo sterrato)

Quando il sibilo rasentò la carne
la ragazza cedette sulle ginocchia
come fosse già in preghiera
corpo cavo per accogliere miracoli…

Tenève l’età tè, quand’à scuppiat la guerre
mi disse un giorno mio padre
so raccòte zijete da ‘nterre,
ca avè viste la morte ‘nfacce:
nu culp javé passate a duu dete da lu colle
j’avè fatte sole nu busce a la sciarpe*

*Avevo la tua età quando scoppiò la guerra
mi disse un giorno mio padre
ho raccolto tua zia da terra
che aveva la morte negli occhi:
una pallottola le era passata a due dita
dal collo, le fece solo un foro sulla sciarpa


da LA LINEA GUSTAV (pag.41)
Sotto il cielo dell’estate
tra i piani azzurri della città
è come se il mare fosse rovesciato
e avesse illuso con la brezza la litoranea

Ma basta poco per cambiare aria
minare al cuore la bonaccia

ricordare quel giorno del millenovecentoquarantatre
(letta così quella data, sincopata e tutta d’un fiato)
richiama nell’aria i colpi di mitraglia

Mi butto a peso morto sull’asfalto

Sulla testa sibilano come proiettili
le traiettorie di volo dei gabbiani


da FOOD FOR THE ANTS
 Radetzky (pag.74)

Si entra nel locale ed è come se qualcuno
ci avesse rovesciato addosso un secchio d’acqua,
ci guardiamo, stentiamo a crederci di poterci essere,
di rimanere ancora in piedi
nonostante l’improvviso silenzio delle persone

Le belle donne carezzano bicchieri o le lunghe
gambe, fumano senza colpirci con uno sguardo
e noi siamo ancora lì, i fuori posto,
come un trucco che rimarca
gli occhi troppo in fuori, guardando le cose più in là
di dove dovrebbero stare

Raggiungere il banco è un percorso a ritroso,
ci si arriva solo per spegnere il fiato,
e poi ordinare qualcosa, farlo per il gusto
di avere le braccia poggiate sul tavolo

Lì è il barista a condurre il gioco
a renderti il conto di chi sei:
uno straniero sul fronte opposto
della barricata

Ognuno nel proprio silenzio
prima di trovare le parole

Aprire il fuoco alle labbra


da UN UOMO TRE PER DUE (pag. 98)

Girando la porta scorrevole
ci si vede come un corpo che fiata,
una sagoma abbagliata dai neon
con la giacca sulle spalle

E’ il fardello di una sembianza tradotta male,
dentro una scatola di vetro si rimane ognuno
con il proprio volto deformato
mentre nitide appaiono come oasi le vetrine

Per quel tempo in cui si sta a girare
è come se nessuno appartenesse più a nessuno,
nemmeno dalle voci sovrapposte
si rinviene il pianto che ci bacia le labbra

Intanto che giriamo a vuoto
siamo insetti ingannati dal cristallo:
cerchiamo una via di uscita, accecati,
tutta una vita controluce





da CORTOCIRCUITI
Contatto (pag. 123)

Mi poni il vuoto nelle mani,
piccoli petali del dolore,
i ricordi incendiati nel palmo

La materia del buio è palpito di vene,
pace di sottofondo l’attrito delle ossa

A nudo sotto i piedi come radice
mi nutro in sogno di ogni tuo pensiero

I tuoi occhi mi riportano nei posti
dove non sono mai stato.


Maria Grazia Di Biagio

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